Lucrezia Costa, fotografa promettente del mondo della moda.
Intervista a Lucrezia Costa, giovanissima fotografa italiana che sta acquistando molta visibilità, soprattutto nel mondo della moda ed ora anche artista d’arte contemporanea.
“L’unica cosa di cui avevo davvero bisogno nel momento in cui ho scelto di intraprendere questa strada era individuare un canale che mi permettesse di esprimere la mia interiorità, fatta di abissi, zone d’ombra, slanci ed energie inespresse.”
Ciao Lucrezia, come stai e come stai vivendo questo momento di “secondo lockdown”?
Ciao! Tutto bene grazie. Risulterò impopolare ma devo dire che il confinamento forzato a casa ha prodotto degli effetti positivi su di me. Ho capito che stavo correndo troppo, che seguivo dei ritmi di studio e di lavoro un po’ frenetici e che avevo bisogno di uno stop, per riappropriarmi dei miei spazi. Per cui, se nel primo lockdown mi sono completamente fermata e ho ripreso fiato, nel secondo, mi sono dedicata a tutte quelle attività che mi piacciono e mi fanno stare bene: ho lasciato fluire liberamente inclinazioni e interessi e ho idealmente unito i puntini di un ipotetico disegno grazie al quale inizio a intravedere chi sono e in quale direzione sto andando.
Ti conosciamo come fotografa, hai frequentato corsi di fotografia per raggiungere questo livello professionale?
A proposito di impopolarità: mi sono trasferita in una città più piccola per conseguire la triennale nonostante io abbia sempre vissuto a Milano, ma a me le cose facili non piacciono! Mi sono laureata presso la LABA (Libera Accademia di Belle Arti) di Brescia in Fotografia, con una tesi di laurea intitolata “Daimon Ergo Sum” che ha coinvolto tra l’altro uno dei più bei nomi della fotografia di moda italiana come Giovanni Gastel. Una volta rientrata per la laurea magistrale ho cambiato passo, ampliato notevolmente gli orizzonti optando per il Biennio Specialistico in Arti Visive e Studi Curatoriali di NABA (Nuova Accademia di Belle Arti).
Quando hai capito che seguire questo mondo sarebbe stato gratificante? E sarebbe quindi potuto essere il tuo lavoro.
Ho sempre e solo ragionato assecondando i miei desideri. L’unica cosa di cui avevo davvero bisogno nel momento in cui ho scelto di intraprendere questa strada era individuare un canale che mi permettesse di esprimere la mia interiorità, fatta di abissi, zone d’ombra, slanci ed energie inespresse. Nella fotografia ho identificato il modo più immediato per comunicare le mie visioni, i miei sogni, le mie aspirazioni e per trasmettere il mio bisogno di bellezza laddove siamo spesso sopraffatti da brutalità e violenza.
Il mondo della fotografia di moda viene associato all’aggettivo astioso. Sei d’accordo con questa visione?
Ritengo che ognuno abbia facoltà di affrontare le esperienze della vita secondo i propri valori e la propria coscienza, quindi non credo sia corretto definire questo mondo con un aggettivo del genere. Dipende tutto da quanto si è disposti a faticare, quanta strada si è pronti a percorrere, se si è disponibili ad accettare compromessi e se si sa essere animali sociali. Io non sono né disposta a scendere a compromessi né tantomeno sono un animale sociale: amo la solitudine e ne ho bisogno per stare bene. Mi tornano in mente i preziosi insegnamenti di Giovanni Gastel quando mi spiegava che tutto quello che ruota attorno alla moda è come un gioco di società, dove bisogna impersonare un ruolo che però è lontano dalla propria persona e da chi si è nella vita privata. Per me è esattamente così, bisogna recitare un copione e riuscire a rimanere al contempo se stessi e a non confondere mai il gioco e la finzione con la vita reale. E’ una sfida imponente ma non vedo astio in questo.
Hai di recente realizzato un progetto di arte contemporanea visibile durante il mese di febbraio 2020 presso Studioeo a Milano. Vuoi parlarci di questa installazione?
Certamente, “Atémnein” è come un figlio per me. E’ stata realizzata la settimana precedente l’inizio del primo lockdown ed è frutto di un lungo percorso di studio e riflessione, e affonda le sue radici nel quotidiano con le sue mille fonti di ispirazione. Nasce dalla volontà di immaginare un mondo nuovo, che prende forma da un flusso di coscienza nato dalla rilettura delle opere “Punto, linea e superficie” di Vasilij Kandinskij e “L’architettura difficile” di Nicola Emery. “Atémnein” si ispira fortemente all’opera di Joseph Beuys, ad alcune formule costruttive platoniche, alla dottrina antroposofica e alla tecnica del Superadobe, ideata dall’architetto Nader Khalili. Poiché a livello organico non esistono forme spigolose e spezzate, ed ogni cosa, tessuto lasso, semi di fiori, formazioni di fulmini, è realizzato in natura sotto forma di linee curve, Kandinsky ritiene che proprio nel tracciato curvilineo risieda l’organicità, mentre le linee spezzate sono artificiose. La pianta ipotetica della città “Atémnein” non ha una forma prestabilita. Si sviluppa secondo l’esperienza di chi la abita. Atémnein è una città autodeterminata, che si realizza secondo un processo rizomatico, dove ogni nucleo è collegato agli altri e non esistono spigoli, che anche artisti del calibro di Joseph Beuys, ascrivono a simbolo di morte e di chiusura. L’installazione è un lavoro che parte dalla visione architettonica di Nader Khalili e utilizza questa tecnica con lo scopo di neutralizzare gli spigoli nella stanza. Lo spettatore può avvicinarsi alla struttura ed esserne abbracciato, mentre ascolta in cuffia il racconto di come questa città si è costituita e si sviluppa. A completamento, un QR code posizionato sulla struttura permette di scaricare i contenuti di quanto trasmesso in cuffia.
Come mai hai sentito il bisogno di progettare un qualcosa di concreto? Di solito hai sempre indirizzato la tua creatività nella fotografia, cosa è cambiato?
Mi sono approcciata alla fotografia d’istinto, dopo un viaggio a Cuba. Credevo che per essere artista fosse indispensabile possedere una qualche abilità pratica di cui io ero completamente sprovvista e la fotografia mi è parsa salvifica perché mi dava l’opportunità di comunicare senza dover utilizzare le mani modellando la materia. Poi è arrivata NABA: il Biennio ha completamente stravolto la mia idea di arte, ha decostruito molti stereotipi a cui ero legata e mi ha consegnato una visione nuova, che si potrebbe riassumere nelle parole di Levi Strauss “tutto si può fare con tutto”. Anche grazie al forte richiamo dell’elemento terra, ho deciso di cimentarmi personalmente nella costruzione di questa struttura fatta di materiale povero (perlopiù terra, fango, sacchi di iuta e poco altro). E’ stato faticoso, sia fisicamente che mentalmente, e senza l’aiuto fattivo dell’ex boy-scout Carlo (proprietario di Studioeo) probabilmente la mia struttura non avrebbe retto: gli devo molto. Dopo questa presa di coscienza ho iniziato ad aprirmi ad altre forme espressive sopratutto legate alla manipolazione della terra.
Per quale motivo hai deciso di dare vita ad una installazione di questo tipo? Come vuoi descriverci questa scelta? Ha a che fare con la tua vita privata?
La scelta deriva da una volontà forte di mettermi alla prova. Volevo capire se ero davvero in grado di realizzare quello che avevo in mente. Ho sentito forte la spinta verso la creazione di qualcosa di fisico e artistico, secondo la mia nuova concezione di arte, a conforto del fatto che le mie mani possono modellare, lavorare la terra e dar vita a qualcosa di tridimensionale e imponente. Sia il peso specifico della materia che compone la struttura, che la leggerezza e la semplicità del racconto in cuffia rappresentano appieno la complessità dicotomica della mia anima.
Qual è la cosa che trovi più tediosa fotografando e quella che invece ti appaga di più?
Trovo estremamente frustrante rendermi conto di non essere riuscita a cogliere la realtà come volevo che apparisse. Mi intristisco perché quell’attimo è perso per sempre. Se manca la disposizione d’animo appropriata e non si è lucidi è esponenziale il rischio di fallire. Ma quando quella magia si compie per un tempo pari a un 1/125 di secondo, il mio corpo e la mia anima sono attraversati da una scarica di adrenalina cui segue una sorta di pace dei sensi. La fotografia di moda per me è l’inseguimento continuo di quell’attimo.
Hai obiettivi e ambizioni programmate per il futuro?
Un milione!! Senza obiettivi e ambizioni non c’è tensione al miglioramento. Il primo step è sicuramente il conseguimento della laurea magistrale, a cui farà seguito una certificazione della lingua inglese con cui pensare a progetti di più ampio respiro internazionale dal momento che in Italia agli emergenti non viene concessa molta visibilità. Nel mentre seguo vari lavori di fotografia di moda, uno su tutti quello che sto portando avanti con il talentuoso fashion designer Giulio Morini ho in cantiere sia che lavori legati all’arte contemporanea. Ultimamente mi sono approcciata alla scrittura, allo studio del linguaggio e al radiodramma. Difficile dire cosa farò da grande ma sono una pervicace e passionale e quando mi impegno in un progetto dò tutta me stessa per portarlo a termine al meglio.
Oggi praticamente tutti si cimentano nell’arte della fotografia. Credi che sia necessario sviluppare delle basi studiando, oppure potrebbero essere acquisite anche da autodidatta?
La tecnica può essere appresa da chiunque abbia un minimo di pazienza, al pari della bellezza, che può essere colta da chiunque abbia la sensibilità per afferrarla. Se si vuole lavorare ad alti livelli però, in qualsiasi ambito, a mio avviso è necessario avere consapevolezza della propria posizione, del proprio ruolo, della propria persona, di che messaggio si vuole trasmettere e di come si desidera farlo, altrimenti si rischia di incorrere in errori grossolani dovuti alla superficialità e a un insufficiente livello di conoscenza. Quindi, uno studente che ha le possibilità ma non ha fame di sapere è destinato a fallire, così come un autodidatta che ha davvero passione per ciò che fa e voglia di studiare, può arrivare ovunque.
Facendo riferimento anche al momento storico in cui ci troviamo, vuoi dare un consiglio ai lettori che seguono Falcon Magazine e che vogliono proseguire la loro passione sulla fotografia?
L’unico consiglio che mi sento di dare è di ascoltarsi, di abbattere filtri e protezioni, a costo di una iniziale sofferenza, investendo sulla propria unicità per approdare di volta in volta a nuove consapevolezze di se stessi e del mondo.
Grazie per il tuo tempo, ti auguro tutto il meglio per il tuo futuro.
Grazie a voi!