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La dura verità di JUNK

I nostri resi non vengono rivenduti come crediamo

First pic: Creative director and model @MarinaTestino

“Ne avevo veramente bisogno?”, la domanda mi sorge spontanea, dopo aver visto solo i primi di dieci minuti di “JUNK: ARMADI PIENI”, ripensando al paio di scarpe comprate la settimana prima. 

Le conseguenze legate all’acquistare innumerevoli abiti ed accessori tessili, a poco prezzo, sono ormai divenute molto gravi a livello di inquinamento ambientale ed etica. Siamo ossessionati e tempestati ormai, ogni giorno, dal dover esser più sostenibili per contrastare il cambiamento climatico, ma spesso ci perdiamo in piccoli passaggi che potrebbero fare grandi differenze. 

Copertina della docuserie “Junk: Armadi Pieni” comprodotta da Sky Italia e Will Media

Ma come si può far bene, se nessuno ce lo ha insegnato? Vi presento “JUNK”

JUNK‘” è la docuserie coprodotta da Will Media e Sky Italia per trovare la verità sull’industria della produzione dei vestiti.

Ad accompagnarci in questo viaggio che fa il giro del mondo, in 6 episodi, c’è Matteo Ward (@matteo.ward) , attivista e fondatore del celebre marchio sostenibile WRAD (@wrad_living). Matteo si definisce sin dal primo episodio come un “pentito di moda”.


Uno dei dati schiaccianti che emergono è legato agli scarti annuali che produciamo, ovvero 5,8 milioni di tonnellate di vestiti, solo in Europa. Equivale a 11 kg di scarti di vestiti per persona. E in Europa siamo tanti. 

La consapevolezza penso esser l’arma più potente che si possa avere, su qualsiasi piano della nostra vita. E “Junk” mi pare un ottimo punto di partenza per la nostra. 

 

What a fashion disaster!

Nel primo episodio, la meta è il Chile, nello specifico il deserto di Atacama. Tutto parte da una cittadina tra l’oceano ed il deserto: Iquique. Zona franca, dove non si pagano le tasse su tutto ciò che si importa, Iquique è uno dei più grandi depositi dei nostri vestiti usati. Importati, in sacchi chiusi, con pochissime indicazioni, vengono venduti poi a poco prezzo. I rivenditori che li comprano, spesso, non sanno che indumenti troveranno al loro interno.

Ciò che è importante sottolineare è il fatto che i vestiti di scarsa qualità finiscono nel deserto, dove spesso prendono fuoco causando fumi tossici per l’ambiente e per le persone che abitano nelle vicinanze. 

La riflessione che mi sorge spontaneo fare, dopo aver visto il primo episodio, è senz’altro legata alla politica dei nostri resi

Quanto è facile fare un reso?

Negli ultimi mesi, ho constato come alcune aziende stiano giustamente alzando il prezzo di spedizione, ma soprattutto, abbiano messo una somma da pagare per il reso. Da consumatori, potremmo pensare che sia follia, anche perché fino adesso eravamo abituati differentemente. 

Ma la vera follia è che i capi che rendiamo non vengono ricondizionati (stirare, appurare che i vestiti non siano sgualciti, …) né rimessi alla vendita e questo perché ai marchi fast fashion costerebbe molto di più. 

Nel compiere l’atto del reso, stiamo inquinando su diversi fronti: 1. emissione di gas serra nell’atmosfera per il trasporto, 2. spreco inutile di packaging e 3. l’oggetto acquistato che non potrà più esser rivenduto. 

E quindi, dove finiscono i nostri resi? Lo dice chiaramente nel primo episodio di “Junk” Matteo. I nostri resi, come anche tutti gli stock invenduti dei saldi, vengono venduti ad aziende terze al kg, le quali rivendono in Sud America, Africa e Sud-Est Asiatico.

McKinsey, una delle più grandi società di consulenza al mondo, stima che solo nel 2020, il 25% dei vestiti online e il 20% in negozio siano stati resi.

Perché spesso ci capita di fare dei resi?

Spesso gli acquisti che facciamo sono dettati da impulsi del momento e non da ragionamenti concreti. Ci sono molti studi che provano come nell’atto dello shopping il nostro cervello rilasci dei neurotrasmettitori, la dopamina e la serotonina, le quali sono responsabili della sensazione di piacere, benessere ed appagamento istantaneo. 

Il problema è che una sensazione momentanea, tornando a casa, spesso, ci rendiamo conto che forse non ne avevamo bisogno o che gli specchi e le illuminazioni dei camerini davano un’altra immagine. E allora decidiamo di fare un reso. 

Sull’acquisto online giocano ben altri fattori. Da mia esperienza personale, posso dire che le motivazioni principali per il quale mi è capitato di fare dei resi, erano legate alle taglie che non corrispondevano a quanto scritto nella descrizione presente sul sito, oppure, il tessuto non era della qualità che mi aspettavo o nella stragrande maggioranza delle volte, ero gasata nel momento dell’acquisto e poi, quando ho avuto davanti a me il capo, non facevo che chiedermi “e questo, quando pensi di metterlo esattamente?”. 

Non rimane che chiederci: “Ne vale davvero la pena fare dei resi?”. Ognuno credo che sarà in grado di dare la propria risposta e fare dei ragionamenti a ritroso, chiedendosi in prima battuta: “Ne ho davvero bisogno?”, prima ancora di arrivare all’atto dell’acquisto. 

Fammi sapere se anche tu hai visto “Junk: armadi pieni”, ma soprattutto, cosa ne pensi?

 

Author: Giorgia Bellando (ig @gbellando)

 

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