
Cambiamenti climatici fashion edition
In che modo ciò che acquistiamo impatta sul cambiamento climatico
L’industria della moda produce la stessa quantità di gas serra delle economie di Francia, Germania e Regno Unito sommate assieme. Entro il 2030, dovranno esser dimezzate, per fare in modo che le temperature non salgano di 1,5 gradi. Una ricerca di McKinsey mostra come solo nel 2018, l’industria della moda fosse responsabile della produzione di 2,1 miliardi di tonnellate di gas serra. Quindi, possiamo dire con certezza che la moda ed i cambiamenti climatici sono strettamente correlati.
In una delle comunicazioni dell’Unione Europea, del 2022, si può leggere come la produzione di abiti e scarpe sia raddoppiata dagli anni 2000 al 2015 e si stima come entro il 2030 debba ancora aumentare del 63%.
Abbiamo sfiorato con mano, nell’articolo precedente, come i nostri scarti tessili siano un problema enorme per tutti. Affidarsi alle regolamentazioni che lentamente stanno prendendo forma, non è abbastanza però. Per questo, come dico sempre, il cambiamento deve partire da noi, in quanto consumatori.
Per imparare ad esser consumatori migliori, bisogna innanzitutto imparare alcuni termini che ci permettono di capire meglio l’argomento.
Il fenomeno del greenwashing
Tutti, nella vita, siamo stati vittima del greenwashing. È un po’ come esser ghostati, prima o poi ti capita. Il termine nasce negli anni ’90 ed è composto dalla parola “green” (ecologico) e “washing” (insabbiare). Treccani lo definisce cosí:
Moltissimi marchi – in primis fast fashion – in un modo o in un altro hanno fatto greenwashing per incentivare il consumatore ad acquistare. Il punto è che a rimetterci non è solo il pianeta ma anche il portafoglio di ognuno di noi.
Chi fa greenwashing?
Fanno greenwashing tutte le aziende che dichiarano di fare un’azione green ma il resto delle loro azioni non lo sono. Alcune di queste, potrebbero esser legate al dichiarare i loro prodotti come “green”, “committed”, “consciuous”, “eco-friendly” o “sostenibili” a livello di comunicazione, seppur non lo siano nell’interezza.
La maggior parte di queste terminologie, messe su packaging, etichette e vetrine di negozi, spesso non sono seguite da nessuna spiegazione concreta che possa consolidare tale affermazione e neppure accompagnate da qual si voglia certificazione. E ci tengo a sottolineare che alcune certificazioni non sono neanche una certezza.
Altri esempi concreti potrebbero essere legati al comunicare solo l’aggiunta dei pannelli solari sulle strutture dell’headquarter, l’utilizzo solo dei packaging eco-friendly, oppure, l’essere solo in linea con la “paga minima” per un lavoratore di un determinato stato, senza specificarne la cifra esatta. La problematica più grande é che purtroppo le azioni singole non bastano a rendere sostenibile un’azienda. La reale presa di coscienza credo arriverà quando i Brands comprenderanno che il modello di business lineare che hanno adottato sino ad ora è obsoleto. Le azioni per diventare green sono molte e se dovessi metterle su carta, penso dovrebbero esser inserite, non su una linea del tempo, ma bensì, su un cerchio, dove all’inizio si trova “design” e alla fine si trova “smaltimento del rifiuto tessile“.
Come si può vedere nel video sottostante della BBC, dedicato a tale tematica, solo il 70% della generazione Z, ha dichiarato di aver comprato un prodotto da un brand che consideravano etico ma che, in realtà, erano etiche solo le loro campagne di comunicazione. Nel seguente video, emerge come anche il 73% dei Millenials sono disposti a spendere di più per un prodotto etico.
Il greenwashing costa caro
Il greenwashing spesso si può celare anche dietro a dei prezzi più alti rispetto alla media. Consideriamo sempre però che se il capo di abbigliamento che stiamo per comprare è stato prodotto su larga scala e quindi, di poca unicità non sarà considerabile neanche lontanamente sostenibile.
Inoltre, il greenwashing non è solo più caro al nostro di portafoglio, ma anche a quello delle aziende che lo fanno, perché se accusate di farlo e smascherate, le conseguenze non sono piacevoli.
Il prezzo più caro da pagare è però per il nostro pianeta ed il cambiamento climatico ne è a riprova.


Per prevenire il greenwashing: Good on you – Ethical fashion
Good on you – Ethical fashion si presenta con il claim “Wear the change you want to see” (indossa il cambiamento che vuoi vedere). A creare il seguente sito e movimento sono persone che amano la moda ma anche il pianeta e gli animali. Professionisti del settore moda, attivisti, scienziati e scrittori con coscienza, si uniscono per guidare il cambiamento.
Good on you ci aiuta a capire il livello di sostenibilità di un marchio, ma anche a conoscere nuovi Brands più “green” e quindi, a cambiare le nostre abitudini all’acquisto. Nella “Home” sono presenti anche vari articoli per guidarci nelle scelte consapevoli e poi, Emma Watson è una delle maggiori sostenitrici! Oltre al sito web è inoltre presente l‘applicazione per smartphone, per poterlo consultare comodamente dove più preferiamo.
Author: Giorgia Bellando